texts - Donatella Mancini

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Corpi indescritti
le dissolvenze di Donatella Mancini


Ciò che più unisce tutta la produzione surrealista è la "percezione della natura come rappresentazione, della materia come scrittura" tale "visione della natura come segno, come rappresentazione, è naturale per la fotografia". Rosalind Krauss parlava della fotografia surrealista, nata negli anni venti come avanguardia europea, riproposta poi successivamente nelle sue innumerevoli declinazioni e ri-citazioni proprie dell'epoca lyotardiana postmoderna. Nell'opera di Donatella Mancini vediamo specchiarsi susseguendosi i temi cari a Breton e agli artisti che a lui seguirono: l'inconscio, il tema del doppio, la casualità, il corpo, il perturbante e l'informe, che portano al frammento artistico contemporaneo; dal tema del doppio del primo lavoro realizzato in polaroid, nell' anno 1996, "Flectere", alla visione onirica, pur registrando la così detta figura reale degli oggetti, del "Senza Titolo" del 2010.
Se i temi si allineano con quelli dell'epoca surrealista, la tecnica allora diviene l'elemento che definisce l'opera della fotografa come contemporanea. Le tecniche di manipolazione dell'immagine fotografica, come la corrosione attraverso acidi o solventi diversi, che fanno sì che si mostri la superficie, sono adottati fin dall'epoca surrealista: ne sono esempio la solarizzazione che con Raoul Ubac nel ciclo della "Battaglia delle Pentesilee" del 1939 porta i corpi a moltiplicarsi così da sembrare  apparizioni che emergono dal fondo, o che vi sprofondano, come in una scultura o bassorilievo di luce e Man Ray in "Ritorno alla ragione" del 1923 dove pone, attraverso proiezioni di luce, un corpo che cerca di mimetizzarsi attraverso i fenomeni luminosi dello spazio diventato attivo e non solo contenitore. Donatella Mancini sviluppa la tecnica della polafusion
che utilizza il film fotografico con acidi che deteriorano alcune parti dell'immagine per poi essere sostituite da altre immagini come in "Omaggio a Dalì" del 2000, eco del celebre collage fotografico "Il fenomeno dell'estasi" di Salvador Dalì per il primo numero della rivista "Minotaure" nel 1933, e la polapressure, una tecnica già esistente che consiste nell'effettuare una pressione con svariati utensili sulla pellicola prima che questa si sviluppi, come in "Senza Titolo" del 2010 dove le immagini sono state scattate sul monitor della tv, creando in questo modo viraggi di colore inconsueti.
Le polaroid diventano il mezzo più adatto alla sperimentazione, per quella loro capacità di registrazione automatica del reale cara a Cartier-Bresson, quella concezione dell'istantanea come abilità visiva del fotografo nel cogliere l'attimo, l'istante, che ferma un'immagine; quello stesso istante unico nel tempo immortalato dalla fissazione spaziale fotografica. La polaroid concede tutto questo, quell'inconscio tecnologico irripetibile, quelle esposizioni in tempo reale proprie solo dello sviluppo istantaneo che rendono l'immagine feticcio del tempo stesso; "la Polaroid è un oggetto magico, perché si riesce a ritagliare quel rettangolo di realtà che non può più ripetersi né meccanicamente né esistenzialmente. In quel rettangolo di realtà tutto si concentra, i colori si intensificano, le mura, gli oggetti, la luce è come se tutto si stringesse per raccogliersi nella cornice bianca, così come accade per le foto di gruppo, in cui tutti si stringono calorosamente per essere ripresi nello stesso spazio. Usare un’istantanea vuol dire diventare specchio, essere lo specchio in cui il mondo si osserva", ovvero l'oscillazione delle polaroid tra il reale e ciò che reale non sarà più. "Come impronta luminosa, la fotografia è la presenza intima di qualcosa di una persona, di un luogo, di un oggetto. Allo stesso tempo dà la presa più forte del "una volta e poi più". Data impietosamente gli esseri che sono per noi più vivi, ma al di fuori di qualsiasi durata. Li mette in uno spazio strettamente localizzabile, ma al di fuori di luoghi veri. Ciascuno vi è solo una frazione di secondo e una sezione di spazio che non possiamo né vivere né rivivere. Qui la cornice è d'obbligo". Quest'ultima racchiude la chiave tematica del lavoro della fotografa che sta nel gioco dei rapporti tra spazio e corpo e che sembra, inconsciamente, aver preso le mosse dal Man Ray dell'opera "Il primato della materia sul pensiero" del 1929, dove il corpo femminile è legato al suolo su cui è posato creando una strana fusione di corpo e spazio. Si accentua l'identificazione fra corpo umano e corpo della fotografia: lo possiamo vedere nel montaggio delle sei polaroid di "Eco" del 2010 dove i corpi femminili in una serie di collage "sovrapposti" producono quell'informe di Bataille, intendendo con questo termine non solo ciò che non ha forma ma ciò che si ribella alla forma stessa. Il corpo in costruzione è una ibridazione fantastica tra organico e inorganico, un corpo disgregato vicino al conturbante che resta irrisolto, un corpo frammentato la cui unità è rimandata all'immaginario. Non si vede più oggetto e soggetto separati e isolabili nelle "Dissolvenze" del 2010 dove il corpo femminile si unisce, proiettandosi e sovrapponendosi alla Natura, per rivelare qualcos'altro. Il corpo diventa post umano
, ed insieme ai luoghi quotidiani, si tramuta in perturbante, in quella chiave freudiana che va dal doppio all'inanimato che prende vita.
La teoria del frammento delle immagini si avvicina al lavoro della fotografa nel senso di un'unità dispersa dove alla stessa unità si sostituisce il frammento moltiplicato. Un moltiplicarsi di frammenti che formano un nuovo mosaico ovvero quello che la realtà diviene per noi. Ed eccoci allora a parlare dell'uso linguistico dell'immagine che, come ibrido, si pone come immagine assoluta, che non ha più alcun rapporto con il reale, direbbe Baudrillard. L'ombra del soggetto si proietta sull'oggetto dell'analisi ed il reale interviene solo come elemento aggiunto; è evidente nel trittico "Mia Interiore" del 1998 dove il corpo si dissolve completamente e la frantumazione dello stesso è resa evidente dai vetri infranti nella prima immagine del trittico. L'immagine si pone quindi come una narrazione non solo puramente estetica ma che si avvicina prepotentemente alla scrittura per la sua capacità di registrazione automatica della realtà.

Gilles Deleuze parlava di immagini aperte. Di uno spazio qualunque: uno spazio perfettamente singolare che ha solamente perso la sua omogeneità cioè il principio dei suoi rapporti metrici o la connessione delle sue parti, benché i raccordi possono essere fatti in un'infinità di modi. Ebbene, le immagini di Donatella Mancini sono espressioni di un recupero di memorie e immaginari proprie di quel Narciso che incarna l'essere conquistato dalla propria immagine, ossessionato dal suo riflesso.

Chiara Micol Schiona


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Eco


Quando – in una giornata del 1947 che sarebbe poi passata alla storia della fotografia come una tappa fondamentale – l’ingegner Edward H. Land presentò alla stampa il processo Polaroid da lui inventato, nessuno poteva immaginare il potenziale creativo insito in quella emulsione a sviluppo immediato. Ben presto furono i fotografi (chi altri avrebbero potuto farlo?) a scoprire di avere a disposizione un materiale straordinariamente duttile. Il termine "sensibile", abitualmente utilizzato per definire una pellicola, in questo caso assume anche una valenza metaforica perché, per chi la sa usare, la Polaroid è una magnifica superficie che conserva e quindi trasmette l’aspetto fondamentale insito nella fotografia: la meraviglia. Era inevitabile che Donatella Mancini, che ha iniziato la sua carriera in campo pittorico prima di passare a quello fotografico facendosi sempre guidare dall’istinto dell’autodidatta, finisse per confrontarsi fruttuosamente con la Polaroid e, soprattutto, con l’ampia libertà di ricerca e d’azione che questa implica. Tantissime sono le tecniche di manipolazione, trasferimento di immagine e interventi vari cui si può ricorrere, ma l’autrice ha optato per una delle più radicali: contro ogni regola generale che in fotografia suggerisce la delicatezza, ha utilizzato acidi capaci di aggredire la superficie così da creare uno spazio vuoto in cui inserire altre e diverse immagini. Così la figura umana, che nella poetica di Donatella Mancini costituisce una costante ogni volta diversamente declinata, qui sembra fondersi con il paesaggio naturale con cui dialoga. La leggerezza diafana del corpo e la sua trasparenza non sono casuali come il titolo della ricerca chiarisce: Eco
, infatti, allude a una visione panteista perché, come afferma la stessa autrice, "proprio come un’eco che si riverbera in lontananza, noi lasciamo strati di noi stessi nei luoghi che percorriamo". Il bello della fotografia sta nella sua capacità di cogliere queste tracce per farle diventare immagini cui Donatella Mancini in questo suo lavoro  realizzato con una serie di fascinosi autoscatti, conferisce una bellezza incantata.

Roberto Mutti

 


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Ho visto per la prima volta una parte delle fotografie che compongono questa mostra sei o sette anni fa, quando la loro autrice era una mia studentessa alla Accademia di Belle Arti di Macerata. Fu lei stessa, Donatella Mancini, a darmene l’occasione, invitandomi nell’appartamento che condivideva con altre compagne di Accademia, e devo dire che allora l’impatto con quelle immagini fu per me assai forte. Ebbi infatti l’impressione che dietro l’apparenza di un classico appartamento da studenti si celasse un fondo, non sapevo se prossimo o remoto, di terribile crudeltà: il peso di una violenza così nuda e cruda da farmi ricordare certe immagini che avevo visto da ragazzo quando, occupandomi di cronaca nera, mi capitava di vedere, nelle cartelline della polizia o della finanza, le fotografie dei poveri corpi senza nome ripescati in un canale o trovati in un campo alla periferia della città.
E l’impressione era tanto più forte per il fatto che il motivo conduttore era il corpo nudo e variamente esposto (benchè il volto non fosse mai visibile)
della loro autrice, così da far pensare ad una reciprocazione fra l’offesa subita e l’atto di infliggerla, secondo una immedesimazione che univa narrativamente a posteriori patire e agire, ‘scoprirsi’ ed ‘essere scoperti’. Non era però l’elemento erotico nè la sua plastica materiale a risultare al centro della fotografia. Il corpo era sempre in rapporto alla povertà dell’ambiente nel quale si trovava, e il rilievo che vi assumeva era residuale, come quello di una bambola rotta, gettata in una soffitta o in una cantina e lì abbandonata a sè stessa. Il fatto che si trattasse di polaroid assumeva inoltre la valenza paradossale del fissare un attimo fuggente già senza seguito, ossia un tempo quasi azzerato, in cui l’immagine deviava ‘per difetto’ dal suo reale contenuto: i ritocchi apportati col colore a ogni scatto ne rafforzavano del resto la concreta autonomia, indicando parti a loro volta disponibili ad altri eventuali sviluppi espressivi, come rami di un tronco. Certo si deve essere trattato di un periodo, sotto vari aspetti, complesso, corrispondente al primo, arduo disciplinarsi di un caos in origine muto, come una forma di riscaldamento e di presa di possesso di sé. E poichè non vi è impulso che non generi il proprio opposto, da quel caos dolente e appunto senza parole (in cui il pallore della pelle sembra curato solo dall’idea del sangue violentemente suscitato o mestruale), lo sviluppo della narrazione, in altre prove analoghe, ch’ebbi modo di vedere dopo un paio d’anni, mostrava l’apparire, su sfondi questa volta rurali, e con la gradualità di una nascita dalla terra, del bianco di una sposa. Il nero dell’offesa nascosta nel corpo nudo si mutava nel bianco del vestito da cerimonia messo in relazione con la natura. L’orizzonte simbolico così si rovesciava (non si sa se in virtù di un prima o di un dopo la muta caduta nel caos), e la vita palesava un corso in apparenza più normale, che tuttavia non giungeva davvero alla ‘ierogamia’ poichè lo sposo, che era ‘il nero alla luce del sole’, non aveva in realtà un corpo. Non vi era infatti una ‘soluzione’ del nero nel bianco, un lieto fine, bensì una sospensione a metà dei due opposti, che ne attenuava l’opposizione, rendendoli maneggiabili e soggetti a traslazioni meno assolute.
La comparsa della scacchiera mi pareva dichiarare tale funzione come il compiersi di una iniziazione.
Ignoro che cosa sia avvenuto nel frattempo, ma ho l’impressione che, in Donatella Mancini, il legame con l’arte si sia mantenuto vivo, e che la suddetta iniziazione si sia sviluppata nella serie delle polaroid più recenti, le quali accentuano l’elemento potenzialmente ‘giocoso’ (nel senso di maneggevole, riformulabile) di tutti i materiali biografici che costituiscono il portato della sua esistenza, come una sorta di mazzo di carte in fieri, ove i fatti, le memorie e le fantasie assumono un carattere davvero immorale, o meglio amorale, al di là, cioè, del ‘nero’ come del ‘bianco’. Forse è questo ciò che si è venuto in lei maturando dal tempo dei suoi studi all’Accademia e che oggi assume in questa mostra l’aspetto di un percorso coerente e persuasivo.

Roberto Cresti
















 
 
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